Dopo aver passato 6 ore in un supermercato, prendiamo un taxi e ci facciamo portare in un posto (lo conosceva solo John, io andavo dietro di lui e mi fidavo). Sembrava un quartiere malfamato, ma vedevo comunque un po’ di turisti e quindi ero abbastanza tranquillo. Abbiamo aspettato quasi un’ora prima che si palesasse alle nostre spalle una corriera. Sarebbe stata il nostro trasporto verso Banaue, una cittadina nel nord, in piena montagna. Carichiamo le valige e ci mettiamo “comodi”. Ci aspettavano 10 ore di viaggio di notte. Io non ho ancora idea di come sia riuscito a dormirci quasi 3 ore in quel sedile strettissimo, con le strade tortuose, il rumore dell’aria condizionata e mille altre avventure. Sta di fatto che alle 8 e mezza del mattino arriviamo in questa “città” dove ad attenderci c’era un ragazzo con il suo tricycle che ci avrebbe portato al “native village inn”, un piccolo villaggio rustico, ai limiti della città e con una vista pazzesca.

Le uniche cose che siamo riusciti a fare sono state: scaricare i bagagli, farci una doccia e cambiarci. Poi siamo ripartiti con il tricycle alla volta delle risaie di Banaue. Con il ragazzo che ci è venuto a prendere (che alla fine ci ha fatto da guida durante tutta la permanenza), abbiamo visitato i diversi punti di osservazione delle risaie del paese, andando a fare una camminata anche tra di esse. La calzatura adattissima per la situazione, ovviamente, era l’infradito. Il clima umido e piovoso che ci circondava aiutava un sacco a rendere gli scalini e la terra un fantastico scivolo per facilissime cadute. fortunelli noi che non siamo caduti, ma ci siamo stancati assai. A metà strada abbiamo incontrato una signora di quasi 70 anni che risaliva gli scalini in scioltezza, e noi a sputare polmoni tra il riso (non mentre sorridevamo, sia chiaro). Dopo un “late lunch” alle 2 di pomeriggio (comunque mangiando cibi locali, quindi quelli della montagna aka tanta carne e riso del posto), continuiamo a visitare i punti di osservazione delle risaie. Arriviamo all’ultimo e, magia delle magie, si mette a piovere (sono friulano, guai stare senza pioggia).
La giornata si stava per concludere (alle 6 di sera è già buio, quindi si cerca di essere a casa per quell’ora), e prima di rincasare passiamo per il mercato e prendiamo qualche bottiglia di birra, un po’ di carne e verdure da far cucinare. Torniamo al villaggio e dopo un’altra doccia, ceniamo velocemente e ci rechiamo presso il fuoco che hanno accesso dei ragazzi del posto (la temperatura in montagna era migliore, la sera era fresco, ma si stava comunque in pantaloni corti) per bere le birre, mangiare qualche “tapas” (si, lo so che è spagnolo, ma lo usano anche li) e fare nuove conoscenze nel mentre. Dopo aver parlato un po’ con i ragazzi filippini, ci buttiamo a dormire nella nostra capanna (in pratica nel villaggio c’era una zona comune, mentre ogni capanna era una camera da letto) e mentre sono disteso sul materasso (i letti non c’erano, eravamo con i materassi sulle travi di legno che componevano la capanna) ascolto i suoni della natura. tutto un altro mondo rispetto al caos della capitale.
Il giorno successivo conosciamo altri ragazzi che vivono nel nostro stesso villaggio (c’era un canadese, una neozelandese ed un altro di cui non ho capito l’origine) e assieme a noi accolgono la sfida più grande: sopravvivere a Batad.

é un paese interamente immerso tra i terrazzamenti delle risaie e l’unico modo per arrivarci è avvicinarsi con la macchina il più possibile e poi andare a piedi.
è stata la giornata più intensa secondo me. Un po’ perché io sono stupido e un po’ perché abbiamo camminato tantissimo (o forse no, ma c’erano troppi scalini). il motivo per cui sono stupido è che non so organizzarmi uno zaino “per tutti i giorni” quando sono in vacanza. Porto via troppi kg di attrezzatura (soprattutto fotografica) che non uso, ma che all’inizio dico “non si sa mai che serva”, e poi non serve mai. sta di fatto che abbiamo girato per queste terrazzate, visto una cascata incredibilmente enorme (che mai mi sarei aspettato di trovare li) ed incontrato dei bambini che stavano LAVORANDO nelle risaie assieme ai loro fratellini più piccoli. mi sono permesso di scattargli qualche foto perché era una situazione davvero assurda. bambini lasciati li da soli a fare lavori che io considero “da grandi” e loro erano felici! ho visto e poi fotografato alcuni sorrisi che mai avevo visto in Italia. quando vedo o semplicemente ripenso a quei bambini mi si illuminano in testa una frase “meno hai, più dai. più dai, più sei felice”.

Ritorniamo alla macchine e dopo qualche ora di viaggio torniamo al centro del paese, dove prendiamo un po’ di viveri per il falò della notte (era diventato un appuntamento fisso alla fine) e così tornammo in cerchio a raccontarci esperienze e cose di tutti i giorni che per gli uni e gli altri sembravano assurde. quella sera, oltre alle birre, i ragazzi filippini hanno voluto metterci alla prova bevendo il gin (ne bevono un sacco loro) alla “filippino style”. in cosa consiste tutto ciò? si beve un goccio d’acqua tenendolo in bocca, si beve uno shot di gin, si inghiotte e poi si beve un po’ d’acqua. provare per capire la reazione. Dopo aver passato un po’ di tempo così a bere, parlare e ridere, torniamo ai nostri capanni, pronti per una nuova avventura per il giorno dopo.
Sfortunatamente gli altri ragazzi non sono venuti con noi, ma io e John ci siamo diretti a Sagada (con le nostre guide al volante), un paese a 65 km da Banaue. quindi di prima mattina siamo partiti e dopo quasi due ore di macchina (le strade sono abbastanza contorte e ben poco mantenute) siamo arrivati a Bontoc (prima tappa del tour).

In questa città abbiamo visitato un museo dove raccontavano molto bene le origini storiche dei filippini. Difatti la zona montana è quella rimasta più indigena e meno colonizzata. Nelle altre zone invece si nota assai bene la colonizzazione spagnola, giapponese e americana. Abbiamo visto i reperti risalenti a centinaia e migliaia di anni prima, vedendo anche alcune foto degli “head-hunters”, ovvero i cacciatori di teste, tribù locali che uccidevano (e poi mangiavano) i loro nemici ed utilizzavano la loro testa come trofeo da portare al proprio villaggio. La cosa divertente è che questa pratica era ancora usata fino ad una 50ina di anni fa (almeno così mi pare di aver capito).
Dopo esserci acculturati un po’ in questo museo, siamo corsi avanti a Sagada per vedere la nostra effettiva destinazioni. Le “attrazioni” di questa cittadina sono prevalentemente due: le tombe sospese sulla roccia e le grotte. Le prime erano delle bare in legno sospese su delle pareti di roccia. Queste postazioni erano dedicate solo ad alcune persone particolari del villaggio, ovvero i vecchi che morivano e avevano ancora in vita tutta la loro intera dinastia. Era questa l’unica condizione per poter avere la propria salma in quel punto. confesso che era davvero strano vederle li, sorrette da due semplici ferri.

Successivamente ci siamo recati all’ingresso di una grotta e li si è notata tutta la mia spensieratezza da occidentale. Di grotte ne ho viste un poche in Italia e normalmente erano illuminate, con un “sentiero” calpestatile e protetto, senza alcun tipo di rischio. Ecco. Nelle Filippine non funziona proprio così. Iniziamo la discesa all’interno e ci sono degli scalini in cemento con un corrimano in tubi d’acciaio. Qualche decina di metri dopo il corrimano sparisce, poi spariscono gli scalini in cemento e si cammina sulla roccia, fino a che non sparisce anche la luce. Al che le guide (fortunatamente erano 2) estraggono due torce e ci illuminano il percorso, mostrandoci poi i punti da osservare. Scendiamo ancora un po’ e una guida si ferma dicendoci “Now we have to take off our shoes”. Io sbianco. COSA?? non potevo tornare indietro da solo, c’era troppo buio e la fioca luce del mio iPhone non mi permetteva di vedere nemmeno ad un metro di fronte a me. Non volevo restare da solo fermo in quel punto, quindi decido di seguire questi pazzi. Mi tolgo le scarpe e adagio lo zaino a terra, portando con me solo la Gopro. Iniziamo a camminare scalzi e ho una paura pazzesca di scivolare nel nulla. Camminiamo ancora un po’ ed il suolo sotto i piedi inizia a cambiare. Alla roccia liscia che c’era precedentemente si era aggiunto un corposo strato di roccia calcarea (o forse lavica, sembrava quasi pietra pomice). Questa roccia aveva una caratteristica fantastica: mi faceva sentire spiderman. Potevo arrampicarmi ovunque senza scivolare, pure con l’acqua che mi scorreva sotto i piedi. Pazzesco. Questa credo sia stata una delle esperienze più assurde mai provate nella mia vita. E pensare che il mio problema più grosso era la paura di cadere nel niente. (quando poi l’ho raccontato ai miei amici, loro mi hanno chiesto se non avessi avuto paura di qualche crollo, ma confesso che nemmeno ci avevo pensato) Continuiamo a girare per questa grotta, arrampicandoci su corde posizionate in punti strategici per salire e scendere da alcuni dislivelli di qualche metro.

Raggiungiamo il punto più basso per dei semplici turisti (non siamo speleologi) e torniamo allo zaino e poi alla luce del sole. Dopo questa camminata a me era venuta una fame assurda (erano quasi le 2 di pomeriggio), ma prima di fermarci a mangiare, le nostre guide ci hanno portato all’ingresso di un’altra grotta per vedere una catasta impressionante di bare tutte ammassate una sopra l’altra.
Dopo queste visioni abbastanza tetre, la fame continuava a farsi sentire e finalmente alle 3 del pomeriggio riusciamo ad andare a pranzare. Mangiamo al solito cibo tipico. Poi però John mi racconta di qualcosa di buonissimo del posto: la torta al limone. Corriamo per il paese per una mezz’ora buona alla ricerca di questa famigerata torta, che però devo dire che non era niente di poi così estremamente eccezionale, però era buona e sembrava un po’ a quella che fa anche la mia nonna in Italia. E qui sono iniziati i ricordi al cibo italiano. Quanto mi mancava mangiare un piatto di pasta, un musetto, un buon frico e della buona acqua del sindaco da bere (acqua del sindaco=acqua di rubinetto potabile). Dopo tutta questa sfilza di pensieri torniamo alla macchina con le nostre guide e ci dirigiamo verso il villaggio dove alloggiamo. Dopo qualche ora di viaggio, arriviamo in una zona abbastanza sopraelevata e prima di riuscire ad accorgercene, rimaniamo intrappolati in una enorme nuvola. La strada si vedeva a malapena. John si stava cacando sotto, io ero un po’ abituato alla nebbia della bassa friulana, e sembrava che pure l’autista fosse abbastanza abituato. Decide comunque di fermarsi al primo villaggio per fare un po’ di spese alimentari per il villaggio. Io ovviamente, non sapendo che fare, scatto foto a persone che incrocio in questo stranissimo contesto. Casualmente la guida trova una sua cugina che abitava qualche km prima del villaggio e carichiamo in macchina pure lei.

Torniamo in marcia e la nuvola man mano si allontana, lasciando vedere meglio la stretta ed intricata strada da percorrere. Salutiamo la cugina (io non ho comunque capito una parola di quello che si dicevano. anche se ero straniero nessuno cercava di accennare un minimo di inglese per parlare anche con me, quindi vabbè) e prima di tornare al villaggio ci fermiamo nel paese a prenotare il nostro viaggio per il giorno seguente: 9 ore di van verso Baguio. Prima di pensare al viaggio torniamo al villaggio e come consuetudine ci rechiamo al fuoco per bere e mangiare. per l’ultima sera le guide avevano preso dei bauli da far mangiare a me e agli altri ragazzi che non lo avevano ancora provato. Dopo qualche birretta ricomincia il rito dello sgusciare e poi mangiare questo “uovo sodo”. A me e Matt (il ragazzo canadese) sorge poi l’idea di provare un’altra cosa che avevamo notato in quei giorni: il Moma.

È difficile spiegare bene cosa sia. In pratica è un miscuglio di foglie di tabacco, polvere di una conchiglia, un altra foglia di una pianta che si trova un po’ ovunque ed una sottospecie di “noce” molto filamentosa. Si prendono tutti questi ingredienti, li si ficcano in bocca e poi si inizia a masticare. si mastica un bel po’ e poi in bocca nasce un sacco di saliva. Si sputa (loro sputano davvero tantissimo) e il colore dello sputo, quasi per magia diventa rosso. Credo che questa tecnica equivalga un po’ al masticare le foglie di coca in perù, però devo dire che è stata una bella esperienza parlare con questo blocco di foglie in bocca e sputare ogni 10 secondi. Dopo questa divertentissima cosa, canzoni e qualche birra ci siamo recati al nostro capanno per passare l’ultima notte.

Per noi la sveglia era impostata alle 5 di mattina, per poter raggiungere il centro per le 8, pronti a salire sul van per Baguio.
Il van era un po’ vuoto e l’autista ci ha concesso un po’ di tempo per fare un ultimo giro. Dopodiché, mentre aspettavamo di bere un caffè con vista sulle terrazzate, John riceve una telefonata e l’autista ci chiama velocemente per partire. Beviamo in fretta e furia un caffè (ovviamente solubile) e corriamo al van. Prima di salire, incrocio lo sguardo di una bambina e non riesco a fare a meno di fotografarla.

Da li inizia il mio tracollo. Ore e ore di viaggio su questo van indemoniato, sfiorando gli 80km/h su delle strettissime ed intricatissime strade montane. il posto a sedere era strettissimo (in realtà sono io ad essere troppo grande) e a dire di John era il migliore che potessimo prendere perché gli altri erano peggiori. Io non sono stato mai così male nella mia vita. Fortuna che ogni qualche decina di chilometri si fermava per una “pausa pipì” in posti inusuali:

Per il resto del percorso però, un mal di macchina mai provato prima. A peggiorare la situazione è stata la sosta per pranzo in un paesino dove il cibo faceva veramente schifo. Ma tanto proprio (lo ha detto pure Jhon!). Per stare meglio ho preso del pollo fritto, ma per mia sfortuna, era freddo. L’ho mangiato lo stesso perché avevo nausea e fame contemporaneamente. Fortunatamente John aveva comprato delle caramelle alla menta così da lenire l’odore di quella carne orribile che avevamo mangiato. Nota speciale di questo posto: il bagno.

Dopo Altre ore di van arriviamo a Baguio. scendiamo dal van e sembrava incredibile sentire il cemento sotto i piedi. Recuperiamo i bagagli e ci dirigiamo in strada alla ricerca di un taxi. il nostro viaggio non era ancora concluso. Riusciamo a fermare il primo che passa (il tipo che guidava era loschissimo e sembrava avesse appena ucciso qualcuno) e saliamo chiedendogli di portarci alla stazione delle corriere. Arrivati, lo paghiamo e cerchiamo un posto in una corriera per poter raggiungere Laoac (paese dove abita la zia di john). Saliamo e ci sediamo in due posti distanti, visto che di vicini non ce ne erano. Io ovviamente ero nel panico perché non capivo una parola di quello che la gente diceva e quindi speravo che nessuno parlasse con me. Mi sono dedicato a guardare un film filippino (nelle corriere con viaggi lunghi, c’è una grande tv sopra il vetro frontale, così che tutti possano guardare il film, ma senza sentirne l’audio) orribile, fino a che non è arrivato il controllore per fare il biglietto che ho lasciato fare al buon amico madrelingua. Dopo quasi due ore John mi avvisa che saremmo dovuti scendere alla fermata successiva e così abbiamo fatto. Mi guardo attorno e siamo in mezzo ad un incrocio enorme. Ad attenderci in un parcheggio vicino c’era un suo cugino (la sono tutti o cugini o zii, sia ben chiaro) con un tricycle (tutti hanno un trycicle).